Own now labirintinterrotti

Giovanni Guerzoni

1. Tra i grandi imperativi morali che ci piace pensare orientino la nostra esistenza il più misterioso e forse ambiguo è la libertà.
Sarà magari per lo strame che è stato fatto del lemma, il suo uso e abuso, in questi ultimi opacissimi lustri, declinandolo al plurale quasi fosse un insieme di beni monetizzabili e quotabili, facendolo alloggiare indecenti abitazioni multiproprietà, ma pensare la libertà mi disorienta.

1. Altre parole hanno condiviso la stessa, se non peggior sorte. Rispetto, pietà, compassione, termini snaturati quando non declinati esplicitamente in senso negativo. Basta applicare una semplice protesi linguistica, un istmo che traghetta il concetto da un continente al suo antagonista, trasformare la bontà in buonismo, il pacifico in pacifista per accorgersi che con la libertà il gioco funziona poco. Come si può parlarne male, non cercarla, perseguirla a tutti i costi e in ogni momento, farsene una bandiera al punto che anche il liberismo, oggi, viene considerato da molti un obiettivo auspicabile.

2. E soprattutto come non pensarla come intrinseca al fare arte.

3. Il fatto è che, una volta che ci siamo lasciati alle spalle il Giardino, la libertà, parafrasando filosofi e poeti, è diventata un obbligo, un’inevitabile condanna. Fine pena mai.

5. Non è difficile parlare di arte e di libertà se non ci si intestardisce a volerle definire. Sono ambiti in cui essere contraddittori non solo è concesso, ma sembra addirittura connotare particolare intelligenza.

8. Tuttavia Infatti

13. i grandi monumenti della nostra civiltà (se sapessi qual è, la nostra civiltà), artistici, letterari, musicali, non sono forse quasi sempre (voglio esser cauto), il frutto di costrizioni a volte spietate, imposte da qualcuno, dalla materia che si lavora, direttamente inflitte dagli stessi artefici?

21. Nel momento in cui l’artista ha ricevuto dalla società il salvacondotto per sentirsi totalmente libero ha dovuto placare questa enorme ansia dandosi vincoli sempre più raffinati o perversi, come il gruppo letterario Oulipo sta lì a dimostrare.

34. Su libertà e arte non ho molto di originale da dire, figuriamoci sul labirinto, tema sviscerato, ecografato, distillato da schiere di semiologi, filosofi, storici dell’arte, del giardino, archeologi, antropologi, esoterici, tatuatori. Utilizzare a metafora il drammatico gioco del labirinto quasi sempre paga, non così scontata da risultare banale, non così colta da risultare incomprensibile, utile a suscitare un interesse a presa rapida, non esclusivo o troppo smaliziato.

55. Di fronte alle opere di questa mostra, che Paolo Pallara ha cominciato ad accumulare negli ultimi mesi con il suo solito ritmo inesorabile, silenzioso e bulimico

89. e se qui dovessi interpretare il ruolo di critico agiografo, che non mi si addice e di cui non ha bisogno, dovrei sottolineare l’incredibile costanza di livello qualitativo nella straordinaria quantità di produzione, è mai possibile che nel vergare galassie di segni non sbagli mai un colpo, che azzecchi sempre il colore, fosse solo una goccia? Tante note e nessuna stonata. Mi sa che non sono abbastanza critico.

55. l’immagine del labirinto non si è resa disponibile a partire da un sofisticato ragionamento erudito, ma dalla sua evidenza materiale.

144. Sono quasi vent’anni che seguo da vicino il lavoro di Paolo Pallara e questo mi ha permesso di coglierne la progressione, lenta, senza scarti salti o catastrofi, ma continua, meditata anche quando frutto di intuizioni improvvise. Le novità si sono susseguite senza mai tornare indietro, senza mai rinnegare qualcosa del passato, esplorando di volta in volta una piccola porzione di territorio, anche solo una molecola, contando sul fatto che l’infinitamente piccolo e vicino assomiglia tantissimo all’infinitamente grande e lontano. Ebbene in quest’ultima generazione di opere i larghi segni che in precedenza attraversavano le tavole come sciabolate ora si intersecano prendendo direzioni multiple e rinforzando l’idea che ogni singolo pezzo, compiuto e armonico, quindi autosufficiente, faccia parte tuttavia di un insieme molto più vasto, tessera di un puzzle dalle dimensioni indefinibili a cui connettersi come quelle del domino o, appunto, come frammenti di un labirinto da rimontare.
La prima volta che scrissi per Paolo Pallara, come dicevo era la fine dello scorso millennio, vedevo le sue opere, qualunque cosa rappresentassero, a volo d’uccello. Di questo imprinting evidentemente non mi sono più liberato e continuo a vedere i quadri con l’occhio privilegiato del loro autore, dall’alto, in posizione di totale controllo di segni e campiture. Vorrei ora permettermi di indicare due aspetti che, a mio giudizio, potrebbero marcare la fase di lavoro esposta in questa occasione. Il primo riguarda il contesto espositivo, gli spazi da abitare. Sono aumentati, accettando la sfida di non sapere in anticipo e con esattezza come i quadri (l’ho detto prima, sono finiti, ma parte di un tutto potenzialmente infinito) avrebbero respirato. Si sente, credo, il desiderio di dire di più, di alzare la voce, di esporsi maggiormente, temperato dall’ansia di non perdere mai il polso della situazione, siamo più vicini al momento in cui verrà abbandonata ogni cautela e l’Autore ci dirà e ci darà la (sua) verità. Il secondo aspetto riguarda le lettere, i caratteri tipografici che già da tempo sono uno dei suoi tratti distintivi. Sono diminuiti, ma, proprio per ciò, risuonano con maggiore evidenza e densità di significati. Significati tenuti nascosti perché affidati a parole che perdono pezzi e e linearità di lettura ed emergono come una sorta di grido strozzato, e qui si avverte il pudore misto alla paura di scrivere qualcosa di personale che fino a ora si era espresso nell’uso del colore e dei materiali. Già brusio di sottofondo, una trama a far da bordone durante la lunga precedente fase espressiva, ora decantate e apparentemente misteriose le parole recuperano capacità comunicativa, al punto che l’Autore ne ha fatto il titolo dell’esposizione, non credo solo per il significato che hanno, maggiormente per la loro evidenza formale (ma non gliel’ho chiesto e non glielo chiedo per non dover poi rinunciare alla mia osservazione).

Ultima uscita. Siamo al centro del labirinto. L’intuizione iniziale ha cominciato anche a dettare lo sviluppo e l’allestimento di questa mostra, il labirinto descrittivo è diventato labirinto prescrittivo. Siamo al centro del labirinto. Ci siamo definitivamente persi o ci siamo finalmente trovati? Lo spazio del labirinto rappresenta il disordine il caos la perdita di orientamento l’irrazionale. Eppure è uno spazio geometrico calcolato costruito razionale. Ogni strada o sentiero che si interrompe ci costringe a cercare un’altra via. Il labirinto che si interrompe e quello ininterrotto sono la medesima cosa.

Ferrara, 30 agosto 2018

Si ringrazia Simonetta Manicardi
per i preziosi spunti offerti per la stesura di questo testo