IL GESTO DEL TEMPO

Elisabetta Pozzetti

Forse ero solo il gesto del tempo… infinito come la linea che sostiene e conduce il pensiero, sorregge le inquietudini, accende gli entusiasmi. Che rimane a consolare la solitudine e ad accarezzare il ricordo. Radice forte contro il vacillare della vita. Il segno di Paolo Pallata si enuncia in marcata definizione, in assoluta affermazione, ormeggio sicuro dal quale tendono in giocoso equilibrio lunari boe, in uno sfumare di immane estensione. La fissità di nero contorno, che destruttura la superficie in due emisferi dialoganti, è animata dal roteare di un circolo ora sospeso ora trafitto ora in dolce slittamento. Talvolta circoscritto, è trattenuto dal precipizio da un armatura di sagoma quadrangolare. Come l’Aleph di Borges, coglie nella finitezza delle forme, l’irriducibile succedersi, senza sovrapposizione né trasparenza, di significati molteplici e multiformi visioni. Tutto e niente di tutto è compreso in quel giro di colore: lo spirito sferico, lo sguardo conchiuso nella rotondità, o il semplice divertimento di una geometria sfuggita a un compasso distratto. Il cerchio è protagonista consapevole. Si affaccia su geografie primordiali, su albe divenute tramonti e rinate da pallide rugiade, su paesaggi lagunari in limaccioso digradar di verdi, su mari di fredda trasparenza in tenue assorbimento di calor solare. Fino ai prati estesi, rigogliosi di primavere e di promesse annodate al vento dei giorni, nel perdersi infuocato del rossore estivo. In altalenante basculare, la sfera assorbe gli umori e le ombre, si confonde divenendo tutt’uno col plasma che la ospita, o si staglia autonoma con nitida e marcata cromia. Può fondersi nell’infinito o accentuarsi nel particolare. Il salto è pur sempre reversibile e viene da chiedersi se non sia lei stessa la causa del moto cromatico circostante piuttosto che l’effetto delle dinamiche che le fanno da sfondo. Poco importa. Il gesto del tempo la trascina, la solleva, la diverte, e con lei l’animo di chi asseconda le maree dello spirito, gli accidenti delle emozioni. Le stesse che guidano la mano di Paolo che colloquia con la materia in maniera alquanto fisica e istintiva. Sovrappone supporti, vestendo la tela di un patchwork di ritagli di carta, costruisce il film pittorico combinando leganti differenti, dalle vernici all’olio, dagli smalti alle chine, fino al carboncino, in una mistura che non è mai miscela: ogni segmento di materia, pur unito ad un altro, mantiene inalterata la valenza semantica. E poi la mano va, esplora, indaga orizzonti inespressi rielaborandoli alla luce di un giorno, che china il capo sulla soffitta della campagna ferrarese incidendo, quasi fossero pellicole sensibili, le opere a cavalletto. I raggi rinnovano la curiosità, si insinuano nella vetusta e rugginosa serratura di un cassone militare, cimelio dell’ultima guerra, abbandonato alla polvere della memoria. Lì, proprio lì dove le ore paiono essersi fermate, rinasce l’aurora: si apre lo scrigno ed affiorano rettangolari lacerti di cuoio invecchiato, la cui originaria funzione si perde nella fantasia di ciascuno di noi. Per l’artista divengono nuovi percorsi su cui tracciare storie padane, dal lineare profilo che scandisce, sfumando, le stagioni della natura e dell’animo. L’approccio è gestuale, quasi carnale. Il colore viene steso, tirato, graffiato, trascinato con repentino ritmo, impastato e separato in punta di pastello quasi a pettinare il cromo scompigliato. A riappacificare il conflitto delle opposte direzioni interviene il tempo, quello dei ricordi e delle sensazioni, delle attese illuse e delle gioie inaspettate, dell’invecchiar dei tessuti e del rinnovarsi dello spirito. Il passato, di cui rimane lontana eco in un relitto bellico, ci restituisce, per ironia della storia, il bello che sorride alla vita. Poesie sparse sul tavolo ritmano il pensiero di Paolo e le parole restano solo un segno senza paura per il vuoto intenso che sta in agguato al prossimo futuro seguendo il fumo acre dell’incenso. Il giorno s’addormenta sul declinare della pianura mentre le ante dello studio si chiudono alla notte. Ondeggiando, si adagiano sul pavimento quei versi amati ma perduti in un angolo remoto. Paolo li raccoglie, li trattiene e sorride. Forse era solo il gesto del tempo che in quella sera ritorna infinito.

Elisabetta Pozzetti – Marzo 2003